Bambini di Auschwitz

Il grupo destinato alla sorte più terribile ed esposto di più alle violenze dei nazisti, comprendeva i bambini e le donne incinte. In pratica, appena arrivati al campo, andavano subito nelle camere a gas.

Bambini di Auschwitz - foto scattata dopo la liberazione
Bambini di Auschwitz – foto scattata dopo la liberazione

In questa canna fumaria c’erano dei casi di parto. Le mamme morivano spesso poco dopo per via dell’infezione, invece il neonatoo veniva ucciso. Solo i bambini di razza ariana avevano il diritto di vivere con il consenso di un ufficiale dell’SS e dovevano essere inseriti nel registro pure loro. Poichè erano troppo piccoli per fare il tatuaggio sull’avambraccio, l’indetificazione in questione era fatta sui glutei o sul femone. Tuttavia, nonostante gli sforzi delle infermiere e delle dottoresse la loro vita non durava a lungo in quanto più debooli per sopravivere alle condizioni del campo oppure per via della denutrizione. Quelli in vita, pure loro venivano sottoposti alla selezione.
. Il dottore E.Berhold, professore di pediatria e prigioniero delle SS, descrisse una di quelle selezioni:

„Per la selezione dei bambini, gli uomini delle SS fissarono una stanga dell’altezza di 1,2 m. Tutti i bambini che passavano sotto la stanga andavano al crematorio. Essendo coscienti di questo, i bambini piccoli alzavano più che potevano le loro testoline per trovarsi nel gruppo di quelli destinati a vivere…”

I nazisti dimostravano un grande disinteresse nei confronti dei bambini, li consideravano oggetti inutili e improduttivi, quindi “ bocche inutili da sfamare”. Essendo troppo deboli per il lavoro forzato, venivano messi insieme con gli anziami e I malati e successivamente deportati nei campi di sterminio o sottoposti alle fucilazioni di massa. Inoltre, l’uccisione del bambino era giustificata dall’idelogia basata sulla “lotta di razza” ma non solo, era anche una forma di prevenzione, una misura di sicurezza, presa nei confronti dei figli di persone “pericolose” o “indesiderate”.
Nonostante la grande vulnerabilità, alcuni bambini riuscivano ad ambientarsi in questo inferno – contrabbanda del cibo, scambio di oggetti, o attività nella Resistenza clandestina – ecco come cercavano di sopravvivere l’Olocausto.
Ruth Webber, una sopravvissuta racconta:

“Non so perché, ma forse essendo una bambina ero in grado di accettare le cose così come venivano, anche perché non c’era niente che potessi fare, a parte cercare di fare del mio meglio per sopravvivere. Per qualche ragione quella sembrava la cosa più importante, sopravvivere. Quello era ciò che sentivi dire sempre da tutti: „Dobbiamo sopravvivere e raccontare al mondo cosa sta succedendo.”

Lapide alla memoria
Lapide alla memoria

In base alle stime e documenti parzialmente conservati, tra 1, 3 milione di deportati, 232 mila costituivano i bambini e adolescent al di sotto dei 18 anni. Questo numero comprende circa 216 mila. Ebrei, 11 mila. Zingari, almeno 3 mila. Polacchi, più di 1.000. Bielorussi, russi, ucraini e altri.

Riso nell’inferno

’umorismo in Auschwitz, contrariamente alle credenze popolari, era un importante componente della vita nel campo. Tuttavia è una questione molto delicata, perfino messa al margine. Diverse sono le ragioni di questo stato di cose. In primis – si considerava comunemente che lo studio dell’umore potrebbe offendere le sofferenze e il maritrio dei prigionieri, scalzare la serietà della questione dello sterminio e suggerire, che i campi non erano così drammatici se la gente riusciva ancora a ridere. Inoltre, gli ex- prigionieri rnon provavano avversione a revocare le situazioni patologiche e tragiche che comunque erano accompagnate dalle risataa, situazioni che normalmente dovrebbero procurare solo lacrime. Ma il tempo attenuò le emozioni e le reminiscenze non furono più così stravolgenti. La richiesta volta verso centinaia di ex prigionieri circa l’esperienza e osservazioni relative all’umorismo del lager e il suo significato permise di capire l’importanza di questo elemento che permetteva di distaccarsi un attimo dai macabri della realtà del campo.
Le risate dei prigionieri erano diverse rispetto a quello degli ufficiali SS. Questi ultimi sghignazavano e ridevano in modo primitivo maltrattando i prigioniri.
Invece per i carcerati l’umorismo era una sorta di reazione alla situazione che in codizioni normali dovrebbe procurare paura tremenda o raccappriccio. Paradossalmente le risate permettevano di scaricare la tensione e l’orrore del momento.
L’ex prigioniera , Maria Gątkiewicz racconta:

“Per me, a prima tragicommedia di Auschwitz I, era spogliarsi e rasatura delle teste. L’hanno fatto le carcerate slovacche. Dopo la rasatura, ognuna di noi, guardando l’una l’altra, rideva di cuore, nonostante le lacrime che affioravano sotto le palpebre perché avevamo un aspetto macabre.”

La situazione citata è un effetto cosiddetto dei specchi storti – che tuttavia è emerso nonostante la situazione tremenda. L’umorismo nero, lo troviamo anche in una relazione di un ex carcerato Julian Kiwała:

“Nell’estate 1941, portavamo via in un carrello, dall’ospedale i defunti ,in un crematorio vicino. Girando verso il cancello principale del crematorio, si è staccata una ruota del veicolo. Il mancato squilibrio ha fatto sbandare il veicolo verso un lato e i cadaveri sono crollati a terra. L’inclinazione fu così improvvisa che uno degli escort venne coperto dalla massa notevole dei cadaveri. Abbiamo notato che da questa massa emersero le mani disposti in modo da assomigliare ad un nuotatore in stile classico. Uno del gruppo gridò subito, Adam, nuota in stile classico, così navighi più veloce. Nonostante l’orrore dell’accaduto, mi ricordo che ridemmo a lungo di questo, e poi ancora chiedevamo ad Adam come si nuotava”.

Gli ex prigionieri sotolineano comunque che l’umore dei campi differiva tanto dalle reazioni normali a situazioni del genere viste in condizioni di libertà. Tuttavia ,pur essendo diverso, l’umorismo esisteva perché doveva esistere. Era necessario per sopravvivere alla depressione e insicurezza. Salvava dalla disperazione, soddisfava il desiderio della librertà, fungeva da autodifesa dando sensazione della vicinaza della fine della Guerra e la conseguente possibilità di tornare alla propria casa.